Il “sogno industriale” umbro di Industrial Flora

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Come testimonia l’appellativo “cuore verde d’Italia”, nell’immaginario comune l’Umbria è conosciuta soprattutto per i suoi paesaggi naturali, oltre che per il suo patrimonio artistico e la sua importanza spirituale. E nonostante voglia, in parte, sfatare questo mito, il progetto di Industrial Flora riprende anche questo riferimento visivo. L’iniziativa, ideata da Andrea Barcaccia, Riccardo Gregori e Marco Pizzi, è uno scavo nel passato dell’industria umbra, una restituzione multimediale del passato e del presente dei siti abbandonati che costellano la regione. Il nome, infatti, oltre che alla loro collocazione nel verde umbro, fa riferimento proprio alle condizioni attuali di questi luoghi, che pur non essendo più funzionanti e abitati dall’uomo sono lentamente stati ripopolati dalla flora e dalla fauna locali, andando a costituire quella dimensione ibrida a metà tra natura e artificialità che oggi in ambito accademico viene chiamata terzo paesaggio.

Nel sito di Industrial Flora è possibile trovare una mappa della regione con indicati i siti documentati finora, ognuno dei quali corredato dalla sua storia, da un reportage fotografico, una ricerca d’archivio, interviste a ex-dipendenti e un prodotto audiovisivo, ma il lavoro varia in base alle specificità di quel sito: per la miniera di Pietrafitta, ad esempio, ci si è focalizzati sulle potenzialità turistiche del rinnovamento del posto e delle sue scavatrici, mentre per l’ex-Pomodoraia di Castiglione del Lago sul recupero dell’immobile per nuove attività commerciali.

Dal racconto dei suoi fondatori, il progetto nasce quasi fortuitamente: da un reportage di Andrea e Riccardo sulla strada statale 77 nasce l’interesse per l’archeologia industriale, che poi maturerà nel corso del primo lockdown. E la ricerca archeologica diventa un’occasione per andare a scoprire non solo il passato, ma anche un “futuro possibile” della regione, che negli anni ‘50 e ‘60 sembrava davvero lanciata verso la modernità e il progresso rappresentati dall’industria in crescita, come racconta Marco nel corso dell’intervista: “Io trovo emozionante questo contatto con questi bivi della storia, con questi futuri possibili. Ed è un futuro possibile, passato, che si può ancora toccare con mano. L’Umbria è ancora in grado di raccontare con una chiarezza inequivocabile cosa a un certo punto voleva diventare. Io l’ho chiamato sogno industriale. Come se ci siano stati dei tentativi – magari idealmente, senza tenere conto delle reali caratteristiche, possibilità, dinamiche del territorio – di provare a diventare altro da sé e a rivoluzionarsi completamente”.

Una modernità che, nel bene e nel male, ha poi interessato chi questi siti li ha vissuti in prima persona. In molte delle interviste presenti nel sito è possibile riscontrare un rapporto ambiguo con questi luoghi, che se da un lato hanno permesso a una generazione intera di poter studiare, farsi una casa, una famiglia, dall’altro sono giustamente ricordati anche come ambienti insalubri e alienanti. Un sentimento ambivalente che poi si traduce in un’indifferenza nei confronti delle strutture superstiti che non è condivisa dalle generazione successive.
“Quello che ho visto è che le poche persone giovani che abbiamo intervistato, o comunque con cui abbiamo parlato del progetto Industrial Flora, erano molto più favorevoli al recupero di questi luoghi”, spiega Riccardo. “Secondo me ciò è figlio di questa diversa sensibilità che c’è nella nostra generazione rispetto alla salubrità dell’ambiente in generale. E fuori dai contenuti del progetto in sé, con i nostri amici o comunque con conoscenti della nostra generazione, questo discorso veniva fuori ancora di più”.

Una riqualificazione per la quale, mezzi permettendo, lavora lo stesso progetto di Industrial Flora. Secondo Andrea “…ci sarebbe il margine per farla diventare una realtà più importante e affermata sul territorio, però avrebbe bisogno di tutta una serie di attività in presenza, con il pubblico o anche con le scuole, perché senza la possibilità di visitare questi posti lo vedo più difficile un legame che continua nel tempo, solo attraverso la divulgazione non partecipata dei media. Per quanto riguarda invece una prospettiva più personale, mi auguro che tutto questo materiale possa sfociare in un prodotto audiovisivo, anche un film per esempio, o documentario. Non so se corto o lungo, quello dipende dalle forze produttive”.

Un progetto, quindi, che come i luoghi da esso documentati racchiude numerose possibilità per il territorio della regione. Per usare le parole di Marco in riferimento alla natura ermetica degli stabilimenti abbandonati, “questa tensione, questa incomunicabilità è anche una risorsa. Se non sono più vincolato alla visione di quel luogo come luogo di produzione, costruito e funzionante in quel modo, posso anche immaginarmi qualcosa di completamente diverso là dentro”.

Leonardo Colaiacovo