Quando la prima pioggia autunnale inizia a scendere la riconosci subito, non è più quella di fine estate, è diversa, più fitta, più rumorosa e tanto malinconica. Il freddo si fa strada in casa e dopo mesi devi chiudere le finestre e pensare che ci siamo, è il momento giusto, possiamo ritornare al cinema.
Al rientro nella sala buia, sembra ancora di essere a una delle prime proiezioni della storia del grande schermo. Parigi, 1895, al Salon indien del Grand Café c’è lo spettacolo di Auguste e Louis Lumière, Le cinématographe Lumière, eclissi di luce totale e poi ecco della gente uscire da una fabbrica. Chissà cosa avranno provato le persone presenti, chissà, guardando le future declinazioni della pellicola, cosa proveranno le prossime generazioni. Mi sono allora chiesta cosa abbiamo sentito noi quando, da bambini o ragazzi, il cinema è entrato nei nostri occhi con prepotenza e non ha mai più tolto il disturbo. Che sia in dvd, vhs, o direttamente al cinema, ci sono colonne sonore che non dimenticheremo e scene che ancora distruggono la nostra anima. Per sempre odierò il tremendo e magistrale Commodo di Joaquin Phoenix nel film Il gladiatore. I suoi occhi cattivi appaiono nella mia testa non appena risuona Now we are Free. Io volevo salvare Massimo Decimo Meridio e la sua famiglia, non ci sono riuscita e per questo ho consacrato, per sempre, il mio cuore a Russell Crowe. Il clichè che la prima volta non si scorda mai corrisponde spesso a realtà, per questo voglio condividere la prima volta di alcuni amanti della settima arte, nella speranza di far rivivere la vostra e rompere, ancora una volta, la quarta parete.
Il favoloso mondo di Amélie – Jean-Pierre Jeunet
Il primo film che mi ha fatto innamorare del cinema, e più specificatamente di un genere e di una città, è Il favoloso Mondo di Amélie. Potrebbe sembrare banale ma all’epoca avevo 12/13 anni, e rifugiarmi nel mondo creato da Jean-Pierre Jeunet mi faceva stare bene. Mi piacevano le storie d’amore atipiche, le espressioni facciali dei protagonisti (tipiche dei francesi che gesticolano con la faccia). Mi piacevano le riprese con gli angoli più belli e strani di Parigi, la Basilique du Sacré-Cœr, i mercati di quartiere, le case mansardate con tetti di lamiera, la metro piastrellata, le brasseries. Poi sono andata a vivere davvero lì, e ho sentito sulla mia pelle tutte le sensazioni provate in quel film, compresa la solitudine o il piacere di rompere la crosta di una crème brûlée. E alla fine, se ho scelto di vivere lì lo devo anche un po’ a Jean-Pierre Jeunet. Merci.
Il padrino – Francis Ford Coppola
Alle medie il mio sabato tipo era più o meno così: la mattina andavo al mercato a comprare i cd pirata, nel pomeriggio da Blockbuster a prendere in noleggio i dvd. A 12 anni guardai Il padrino per la prima volta – rigorosamente in lingua originale, papà ci teneva, un’abitudine che mi porto dietro ancora oggi – e lì ho capito che mai e poi mai sarei riuscita a ignorare la settima arte. Il film è complesso, sapevo di non capirne tutto, ma non potevo farne a meno. Il sabato seguente noleggiai Il padrino II. E ovviamente, da brava adolescente, mi innamorai di Al Pacino e Andy García.
The Dreamers – Bernardo Bertolucci
Alla sua prima visione, provai un certo imbarazzo, tipico di quando, da adolescente, vedi un film con scene di sesso e sopratutto se queste risultano essere molto esplicite. Ma quei fotogrammi mi fecero definitivamente innamorare del maestro Bertolucci, desiderare di entrare nella “massoneria dei cinefili” (i malati di cinema) e assaporare i rumori e gli odori del maggio ‘68 a Parigi. Il Maestro Bertolucci si trasformò, per me, non solo in uno dei miei registi preferiti, ma anche in una sorta di “manuale” dei film da vedere assolutamente: Venere bionda, Cappello a cilindro, Freaks e molti altri. Questi sono diventati, di lì a poco, altri pezzi di poesia che ho aggiunto a quello scheletro iniziale che si era delineato in me quando osservavo, nei fotogrammi del cineasta e nella sua rappresentazione in cellulosa, il suo amore per quel periodo che viene definito Nouvelle Vague. A distanza di anni, e dopo varie visioni, questo film rimane un caposaldo, e quando sento la mancanza del maestro, mi ritrovo a guardare, ancora una volta, The Dreamers.
Kill Bill: Volume 1 – Quentin Tarantino
La prima volta che ho guardato Kill Bill: Volume 1 ero incantata dalla bellezza e dalla precisione di ogni particolare: i costumi, gli oggetti di scena, il setting, la musica durante le scene di combattimento. Ogni cosa aveva un senso. Nella scena del combattimento tra Uma Thurman (la sposa) e Lucy Liu (O-Ren Ishii), Uma fa lo scalpo a Lucy Liu in un giardino tipicamente giapponese. Nevica e suona una musica tradizionale. Pura poesia. Inutile dire che poi ho fatto una maratona di film di Tarantino e ogni volta rimanevo colpita sempre allo stesso modo da tutte le scene. Da lì ho ricercato quel tipo di attenzione al dettaglio e a quella poesia che secondo me rendono il cinema un’arte.
Nightmare Before Christmas – Tim Burton
Il film che mi ha fatto innamorare del cinema non è proprio un film, o meglio è un film d’animazione girato in stop motion, cioè Nightmare Before Christmas. É così che per la prima volta sono entrato nel mondo del cinema, e forse con un po’ di ritardo. Avrò avuto 13/14 anni e da lì ho iniziato a informarmi su chi fosse quel pazzo di Tim Burton e su come ragionasse. É per Tim Burton che mi sono appassionato a Batman e ho iniziato a leggere i fumetti, è per lui che poi mi sono appassionato al cinema in generale e ai grandi attori.
Nuovo Cinema Paradiso – Giuseppe Tornatore
Sarò nostalgica e banale, ma il film che mi ha fatto innamorare del cinema è Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore. Lo mandarono in televisione, quando ancora ci facevano le cose belle e non c’era bisogno di avere 74 abbonamenti a pagamento. Avrò avuto 14 o 15 anni, questo non lo so, ma ricordo che il giorno dopo avevo il compito di greco, eppure lo guardai fino alla fine. A un certo punto mi pare che Alfredo dicesse: “Vattene, questa terra è cattiva!” o qualcosa del genere, “Fino a quando ci sei ti sembra che non cambia mai niente. Poi parti. Un anno, due, e quando torni è cambiato tutto: si rompe il filo. Bisogna andare via per molto tempo, per moltissimi anni, per trovare, al ritorno, la tua gente, la tua terra”. Ricordo che piansi, anche se all’epoca non sapevo cosa significassero davvero quelle parole, poi, quando me ne sono andata via da casa mia, ecco che sono diventate magicamente comprensibili e me le porto appresso ancora oggi. Quando te ne vai da casa tua c’è come un filo che sembra spezzarsi, ma poi non lo fa mai per davvero. E il cinema, e l’arte e il teatro sono l’unico modo per non arrendersi e non cadere nella trappola della nostalgia. Avrò visto quel film almeno cinquanta volte, ma piango sempre quando Salvatore va via.
Blade Runner non è un film di fantascienza. Per me rappresenta uno stato d’animo. La realtà. Quando ho visto per la prima volta le infinite insegne al neon, il formicaio della gente senza razza o genere definiti e la pioggia, la pioggia fitta che avvolge questa società senza personalità, ho sentito la fatica. La fatica che supero ogni giorno mettendomi faccia a faccia con il rigido mondo esterno, fatto di regole e stereotipi. Il film, con i suoi lampi di una struggente amarezza, mi trasmette malinconia e disorientamento. Ha creato in me domande senza risposte, ma allo stesso tempo mi ha iniettato la paradossale voglia di vivere e di amare. È stato un film che ho mangiato con gli occhi. La follia dell’architettura e della luce, che sembra quasi materica, mi ha fatto venire la pelle d’oca. In quel momento mi sono innamorata. Della bellezza. Sono passati anni, ma se qualcuno mi chiede del film che mi ha fatto più impressione, senza dubbio penso a quel cielo plumbeo, alla pioggia e alla luce che fatica a diffondersi.
Pulp Fiction – Quentin Tarantino
Avevo 14 anni quando mi sono imbattuto in una raccolta di vhs di vari interventi chirurgici che mio padre, chirurgo, usava per documentarsi. In mezzo alle varie cassette trovai anche quella di Pulp Fiction, con la sua indimenticabile copertina con Uma Thurman e il suo sguardo mellifluo. Il film era rimasto nascosto lì per 6 anni perché ritenuto, forse, un po’ troppo violento. La curiosità per il proibito prese il sopravvento e una volta inserita la cassetta nel videoregistratore capii che avevo trovato qualcosa di unico che mi colpì come un pugno. I suoi dialoghi scorretti, la sua sceneggiatura, il suo montaggio di scene che non seguiva il normale ordine cronologico della trama, mi rapì in una sorta di viaggio allucinato e aprì la mia mente verso una passione che da allora non si è più fermata.
2001: Odissea nello spazio – Stanley Kubrick
Non è il mio primo film. Nemmeno quello più visto. Nemmeno quello più comprensibile. È il film. Ho visto 2001: Odissea nello spazio a 17 anni con i miei genitori. “Non so ben ridir cosa provai” (semicit), so solo che terminata la visione mio padre mi chiese: “quindi? Che ne pensi?”. Ero in lacrime, sentivo di essere piombata in una sorta di stato post-traumatico. “Credo mi abbia ipnotizzata, non sto capendo cosa ho”, risposi io in balìa di quella che credo essere stata la mia prima sindrome di Stendhal. Avvertivo una reazione particolare, che avrebbe potuto essere causata dall’assunzione di forti sostanze stupefacenti (cosa che non dissi ai miei perché non volevo sembrare una che si fa di acidi). Dal primo fotogramma all’ultimo ho provato un senso di appagamento misto a terrore. Poteva qualcosa essere così perfetto? Anche ora non so spiegare bene l’effetto che questo film ha su di me. So solo che a volte passo ore a rivedere ossessivamente i primi 20 minuti di quello che per me è uno dei più grandi capolavori artistici, non solo cinematografici, della storia. So anche che dopo una visione catartica effettuata durante la scorsa quarantena ho compreso l’argomento che avrei dovuto (e voluto) trattare nella mia tesi di laurea. So anche che per la prima volta ho pensato: “il cinema può fare tutto questo”.
Un fascio di luce illumina la stanza. John Carpenter – Essi Vivono, 1988. Un uomo disoccupato, dell’America povera, cammina in cerca di lavoro e trova un’occupazione come muratore. Ma hey, ci sono degli alieni che vivono in mezzo a noi sotto sembianze umane e occupano posizioni di potere. Non puoi riconoscerli, a meno che tu non abbia degli speciali occhiali da sole. Senza questi occhiali non puoi vedere i subdoli messaggi che mandano attraverso i cartelloni pubblicitari, plagiando le nostre menti. Alcuni ribelli in una chiesa si organizzano per fare una rivoluzione. Letta così sembra una trama delirante di un depresso scrittore sotto pesanti droghe e fissato con la fantascienza. Eppure questa pellicola, con la sua semplicità, con la sua lentezza e primitività di effetti speciali, descrive accuratamente alcuni meccanismi pericolosi del capitalismo, quelli che respiriamo tutti i giorni della nostra vita. Potrebbe essere paragonata a un trattato di sociologia concentrato in pellicola. Il protagonista, grazie agli occhiali, scopre la verità guardando il mondo sotto un nuovo punto di vista e cerca di convincere l’amico che l’ha aiutato a indossare questi occhiali. Ma lui non vuole e per dieci minuti, e ripeto dieci minuti, si scazzottano a mani nude in un vicolo della città. Il simbolo della nostra resistenza nel non voler vedere come stanno le cose, per paura che la nostra triste serenità sia per sempre compromessa. Epico. Il film per la mia percezione durò forse una mezz’oretta. E cosa ancora più incredibile, mi aveva distolto dalle tresche con le fanciulle. Quella sensazione, quando inizi ad affacciarti al mondo, di vedere che ci sono cose che non vanno, provare un disagio incomprensibile e sentirti solo nel provarlo. Svanita in un’ora e mezza. “Che mezzo potente”, pensai.
Illustrazioni Stella Bastianelli
Testo Federica Magro
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